Il Testo Unico che regola le procedure espropriative prevede, nei casi di espropriazione di terreni agricoli condotti direttamente dal proprietario coltivatore diretto nonché da fittavoli, mezzadri, coloni o compartecipanti, un’indennità aggiuntiva rispetto all’indennità di espropriazione, pari al valore agricolo medio (VAM) corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata.
Osservando i requisiti richiesti si evince che le condizioni per poter avere l’indennità aggiuntiva sono:
– aver stipulato un regolare contratto d’affitto da almeno un anno;
– possedere la qualifica di coltivatore diretto o le altre qualifiche precedentemente citate;
– dimostrare di aver effettivamente condotto e coltivato il terreno espropriato da almeno un anno. Ma tutto ciò non è sufficiente. Il coltivatore diretto, affittuario ecc. deve dimostrare di aver coltivato direttamente e/o con l’ausilio dei suoi familiari il terreno espropriato e che, a causa dell’espropriazione è stato costretto ad abbandonare il fondo e conseguentemente ad interrompere la sua attività lavorativa
Viceversa, vengono esclusi i coltivatori diretti, gli affittuari ecc. che esercitano la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale su quello del lavoro e, con l’impiego prevalente di mano d’opera salariata e subordinata e tutti coloro che svolgono, oltre all’attività agricola, altre attività diverse dalla coltivazione e produzione agricola.
E’ bene rilevare che fino a non molto tempo fa, l’indennità aggiuntiva sulla scorta dell’interpretazione che veniva data alla sentenza n.1022 del 1988 della corte costituzionale, era parte integrante, nel caso il in cui il valore del bene espropriato coincidesse con il valore venale, dell’indennità di esproprio, come riportava la giurisprudenza consolidata negli anni ( vedesi sent. N. 14782\2014C. Cass), in base alla quale il valore dell’indennità aggiuntiva non poteva superare il valore venale del bene espropriato.
Tale interpretazione è stata totalmente modificata da una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n° 11464 del 2016, che interpreta in modo completamente differente il concetto di indennità aggiuntiva, spostando l’attenzione sulle prestazioni lavorative del coltivatore diretto.
Infatti, la sentenza dà rilievo principale all’ attività di prestazione d’opera sul terreno espropriato in ottemperanza all’ art. 35 della Costituzione e ss. che tutela la posizione del lavoratore garantendo, fra l’altro che, la sua retribuzione sia in ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La sentenza citata interpreta quindi l’indennità aggiuntiva in termini differenti rispetto alla precedente giurisprudenza, creando una separazione della stessa dal valore venale del bene interessato dal procedimento espropriativo e valutandola separatamente e pertanto, in grado di poter superare tale valore.
A riguardo, è importante segnalare una recentissima sentenza della corte di cassazione la n.20658 del 2019 che nel riconoscere il diritto alla cd. indennità aggiuntiva in favore dei soggetti che traggono i propri mezzi di sussistenza dalla coltivazione del suolo, ne condiziona la concreta erogazione, oltre che alla titolarità di uno dei rapporti agrari tipici, all’utilizzazione agraria del terreno, ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo da parte dell’istante avvenga con prevalenza del lavoro proprio e di persone della propria famiglia; è pertanto escluso dal novero dei soggetti aventi diritto a tale beneficio il terzo conduttore imprenditore agricolo – il quale esercita la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul lavoro e con impegno prevalente di manodopera subordinata -, senza che tale esclusione possa ritenersi in contrasto con il principio di uguaglianza, avuto riguardo alla differenza esistente tra il predetto e i soggetti individuati dall’art. 17 della legge n. 865 del 1971.
Sotra resta a disposizione per chiarimenti in merito.
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